La storia di Oskar Schindler e della sua “Schindler’s List”, con la quale riuscì a salvare più di mille ebrei dai campi di sterminio nazisti. Il film che permise a Steven Spielberg di vincere l’Oscar dopo anni di attesa.
La bimba col cappotto rosso
Cracovia, 1939, poco dopo l’invasione della Polonia da parte della Germania nazista, gli ebrei polacchi che risiedono nei dintorni della città sono obbligati a recarvisi per essere registrati e schedati. L’enorme afflusso di persone induce l’imprenditore tedesco Oskar Schindler ad approfittare del divieto imposto agli ebrei di avere attività commerciali, al fine di trovare il denaro necessario per impiantarvi un’azienda che produca pentole e tegami da fornire all’esercito tedesco. Stringe rapporti con i vertici delle SS, ma si appoggia anche a un giovane borsista nero e a un contabile ebreo, Itzhak Stern, che sfrutterà l’occasione per salvare molti ebrei di campi di concentramento per lavorare nella neonata fabbrica… [sinossi]
Difficile fare i conti con Schindler’s List, anche a ventisei anni dalla sua realizzazione. Si può (ri)partire concentrandosi proprio sul motivo per il quale gli spettatori italiani hanno avuto di nuovo l’occasione di vederlo sul grande schermo, vale a dire la Giornata della Memoria. Quando Steven Spielberg gira il film per il quale è tutt’oggi più celebrato – e questo è un aspetto su cui sarà opportuno tornare più tardi nel corso di questa breve disamina – la Giornata della Memoria non è stata ancora istituita. Non c’è un momento collettivo in cui a livello mondiale ci si ferma a ricordare l’Olocausto, il progetto di sterminio degli “indesiderabili” da parte della Germania con la croce uncinata nello stemma. Nel 1993 il cinema ha già affrontato la Shoah, ovviamente, e si è anche confrontato – con varie e approfondite dissertazioni teoriche – sulla possibilità di mostrare lo sterminio, di rappresentare attraverso le forme della ricostruzione e della finzione ciò che avvenne nei campi di concentramento. Senza voler tornare una volta di più sul carrello di Kapò come emblema di una questione morale dello sguardo con troppa facilità imbrigliata nella rete dell’immagine/spettacolo, è inevitabile porsi una lunga serie di quesiti su Schindler’s List, sulla sua essenza, sulle fotografie di Steven Spielberg che stringe sorridente le statuette ricevute alla cerimonia degli Oscar. Ed è ancor più necessario porseli, questi quesiti, nel 2019. Perché ora la Giornata della Memoria esiste. Una fortuna, ma anche una responsabilità etica che nessuno – o forse in pochi – sembrano avere voglia di assumere sulle proprie spalle. Il successo planetario di Schindler’s List rappresentò un punto di svolta che forse in pochi colsero all’epoca. Ci si divise tra plaudenti adoratori e detrattori – questi ultimi in netta minoranza – ma non si seppe andare al di là della patina, del clamore mediatico, di uno dei giovani giganti di Hollywood che riportava in auge la grandeur dei tempi d’oro. Invece si muoveva ben altro sotto le coltri. Spielberg non firmò solo il suo film più memorabile – per quel che concerne la memoria collettiva –, ma spalancò un vero e proprio Vaso di Pandora delle possibilità produttive. La Shoah si smarcò nel 1993 dalla sua posizione di retroguardia nel cinema, e venne accolta con tutti gli onori nella platea degli Oscar, nell’epicentro dello spettacolo, del cinema come arte ma anche come commercio. Senza che vi fosse nulla di premeditato, e sarebbe assurdo e scellerato ipotizzare il contrario, Schindler’s List inventò la “Soluzione Finale” come vero e proprio genere cinematografico.
In questi giorni nelle sale italiane il film di Spielberg è arrivato insieme ad altri titoli che concentrano la loro attenzione su quel che avvenne primariamente in Germania e nei paesi da lei occupati durante la Seconda Guerra Mondiale: Lab80 ha distribuito l’interessante documentario di Ruth Zylberman I bambini di rue Saint-Maur 209, Videa ha risposto con L’uomo dal cuore di ferro di Cédric Jimenez, che narra la storia di Reinhard Heydrich, e l’altro documentario Chi scriverà la nostra storia di Roberta Grossman – ma prodotto da Nancy Spielberg, sorella di Steven – è distribuito da Wanted. Tra documentario e finzione una delle più grandi tragedie della storia dell’umanità si è progressivamente trasformata in un espediente produttivo, è entrata a far parte dell’ingranaggio, della catena di montaggio di un’industria che tratta le immagini di Birkenau, Dachau o Auschwitz come farebbe con i luoghi di villeggiatura delle commedie natalizie, o i pianeti sconosciuti di un film fantascientifico. Certo, ed è doveroso ribadirlo, Schindler’s List ha una parte solo residuale e involontaria nella creazione di questo scenario, ma ha dimostrato col proprio esempio di poter trasformare l’orrore in successo.
Perché aveva ragione a conti fatti Stanley Kubrick quando, discutendo con Frederic Raphael durante la stesura di Eyes Wide Shut, si trovò a commentare Schindler’s List affermando come non si trattasse di un film sull’Olocausto. “È un film sul successo. L’Olocausto riguarda sei milioni di persone che vengono ammazzate. Schindler’s List parla di seicento persone che non vengono ammazzate”.
Un film sul successo. Probabile. Ma si può forse sintetizzare solo così un titolo in grado di cambiare le sorti hollywoodiane di uno dei suoi più amati enfant prodige? Ovviamente no. Quando Spielberg dirige Schindler’s List ha quarantasei anni, e lavora a Hollywood da oltre un ventennio. Ha già tentato la corsa all’Oscar con E.T. l’extraterrestre e Il colore viola, nel primo caso battuto da Gandhi di Richard Attenborough e nel secondo surclassato da La mia Africa (Il colore viola otterrà il record negativo di 11 nomination raggranellate senza ottenere neanche un singolo riconoscimento). Schindler’s List assomiglia molto da vicino, al primo impatto, a Il colore viola: tutto concentrato sul tema, Spielberg lavora levigando l’immaginario, rendendo la fotografia traslucida, perfetta, inattaccabile. Il suo nazismo è in bianco e nero, quasi a ribadire la distanza nel Tempo, ad astrarre dal reale e dal contemporaneo questo abisso di inumanità e violenza. Un bianco e nero inattaccabile, inscalfibile, così lucente da mostrarsi bello, da ergersi al di sopra della Storia stessa, e dei crimini che vi vengono commessi. Come il capitano nazista Amon Goeth interpretato da Ralph Fiennes, anche Spielberg sovrasta il suo campo, il set cinematografico. Mentre il non di molto precedente L’impero del sole, che guardava la Seconda Guerra Mondiale nell’Estremo Oriente con gli occhi di un ragazzino – l’esordiente Christian Bale –, entrava nelle viuzze di Shanghai, nelle capanne del campo di prigionia, e respirava il puzzo mortifero di quei luoghi, Schindler’s List si tiene quasi sempre a una distanza di sicurezza, con Janusz Kamiński (al primo film con Spielberg, lavorerà con lui in altre quindici occasioni) che sembra estaticamente perso tra le nuvole di fumo respirate da Oskar Schindler. Quasi sempre, per fortuna, perché Spielberg disegna comunque pagine di grande cinema e, superata la già citata questione morale sulla messa in scena dell’Olocausto, è arduo non rimanerne colpiti.
Il pregio principale di Schindler’s List, che nella sua rappresentazione del “Giusto” Schindler non sa scavare in profondità, perdendosi dietro la messa in scena di un eroe in bello stile, peccatore in grado di redimersi – in questo senso il “ritorno” dalla moglie appare una forzatura fin troppo didascalica, ed è del tutto indifferente se ciò si rifaccia o meno alla verità dei fatti –, sta nella sua fiducia incrollabile nel cinema, nel meccanismo di narrazione che ne è alla base. Peccato che il senso di colpa dello stesso cineasta gli impedisca anche di muoversi fino alle estreme conseguenze in questa direzione, preferendo di nuovo tenersi alla giusta distanza. Quella distanza che non sa abbandonare lo spettacolo: lo sottolinea la fin troppo nota bambina col cappottino rosso, forse il punto più estremo – e come tale, il più riconoscibile, ma anche il più ambiguo – dell’intero film.
Nell’onniscenza registica di Spielberg il campo diventa una pura location, e così la fabbrica, le baracche, gli spazi all’aperto. È un film profondamente affascinante, Schindler’s List, se lo si analizza sotto il punto di vista produttivo: non è forse il set la replica meno ferale – e ci mancherebbe altro! – di quella piramide sociale che vedeva comparse e registi, scenografi e interpreti più o meno protagonisti? Se invece lo si prende sotto il puro aspetto cinematografico non si può non riscontrarvi all’interno delle debolezze strutturali legate in gran parte alla prosopopea di uno Spielberg mai più – e mai prima – così tronfio, innamorato del proprio talento, dimostrativo ben più che comunicativo. Maturando il regista di Cleveland approfondirà il lato oscuro e saprà affrontare la Storia sporcandosi le mani, come dimostrano tra gli altri Lincoln e ancor più Munich, in grado di ragionare su Israele senza semplificazioni, ma non qui. La Shoah è tragedia troppo incommensurabile per poterla racchiudere nella perfezione dello sguardo, nella magnificenza delle sequenze di massa, nella solida interpretazione di Liam Neeson. Nel 1997, a quattro anni da Schindler’s List, toccherà a Roberto Benigni con La vita è bella rendere “trama” lo sterminio, e saltellare verso il palco a Los Angeles per ricevere l’Oscar. Una nuova via al successo.
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